La sfida di Pomigliano: sviluppo, occupazione e diritti.

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Forse è utile inquadrare la vicenda della Fiat di Pomigliano in un contesto più generale nel quale ci troviamo e nel quale vive il nostro Paese.
Non aiuta la comprensione di una vicenda così articolata e complessa se non la teniamo dentro un quadro di lettura della crisi e dei processi in corso relativi alla globalizzazione dei mercati e delle produzioni, che inevitabilmente incidono e condizioneranno relazioni sindacali e organizzazione del lavoro.

I dati dei principali indicatori economici ci consegnano alcune riflessioni che devono diventare per il PD, materia di riflessione e soprattutto di iniziativa politica a tutto campo.
Dentro la cornice di una crisi economica mondiale, gli effetti più marcati si sono evidenziati nelle aree dove maggiore è la quota di produzione manifatturiera, come Giappone e Europa, fino a diventare vera e propria recessione per alcuni paesi e tra questi l’Italia, e soprattutto nel SUD del Paese dove si sono evidenziate le difficoltà più forti.

E questo per fattori diversi che riguardano in parte difficoltà strutturali di questa parte del Paese e dentro il nostro apparato produttivo regionale ancora fortemente frammentato così come rileva l’ultimo aggiornamento del PASER:

–      piccole dimensioni degli stabilimenti industriali,

–      ancora marginale il peso dell’industria campana sul totale nazionale:

(Fanno eccezione alcuni comparti, come l’agroalimentare, l’altamoda, l’aerospazio, i servizi logistici, mentre è drammatica la condizione del settore del commercio, in particolare le aziende di minore dimensione.) 

E difficoltà rese a maggior ragione tali a causa dell’assoluta mancanza da parte del governo nazionale di un’idea e di una politica in grado di invertire una tendenza e arginare la crisi.
A differenza di altre congiunture economiche sfavorevoli del passato, sul SUD oggi questa crisi sta mordendo maggiormente con effetti fortemente negativi sui consumi, sugli investimenti e sull’occupazione. Una crisi giunta mentre il SUD si trovava in una fase di particolare fragilità nel pieno di processi di aggiustamento sia dal lato delle imprese che del bilancio pubblico.

E poi tutto questo accanto alle difficoltà delle nostre imprese di affermarsi sui mercati emergenti e di reggere all’intensificarsi della concorrenza internazionale.  Le scelte dell’esecutivo nazionale assolutamente non neutre hanno fatto il resto.

Basti pensare quello che è accaduto per quelle dotazioni finanziarie che precedentemente erano state programmate per la politica industriale e successivamente sono state orientate verso il settore del credito.

O ancora la successiva sottrazione dei fondi FAS destinati al mezzogiorno del Paese. Con il paradosso che risorse che potevano sostenere l’economia reale messa a dura prova, rilanciare gli investimenti, lo sviluppo e l’occupazione nel Sud sono servite ad irrobustire l’economia e settori produttivi nelle aree meno svantaggiate del Paese.

Tutto questo, determinando l’accrescersi di una distanza ulteriore tra il Sud dell’Italia e il resto d’Europa.
E’ evidente che mai come in questo contesto l’assenza totale di una politica industriale e di sviluppo regionale rende ancora più preoccupante la fase in cui viviamo.  Ci si continua a nascondersi dietro una idea non vera e strumentale di un Sud incapace, assistito e sprecone, di fronte al resto del sistema Italia.

Eppure a leggere un po’ qualche dato viene fuori un contesto nel quale, ad esempio, la Campania e le regioni meridionali hanno un livello di spesa pubblica, sia corrente che in conto capitale, inferiore alle altre, nonostante i finanziamenti aggiuntivi ad esse destinate. E sullo sfondo l’assoluta e drammatica inerzia di qualsiasi tipo  di iniziativa da parte del governo nazionale.

Questa è si una crisi di sistema di portata internazionale ma è anche vero che altre democrazie in Europa e fino ai Paesi oltreoceano hanno saputo reagire con forza e decisione calibrando i sacrifici da chiedere alle proprie comunità, ma allo stesso tempo mettendo in campo iniziative e scelte strategiche che oltre al contenimento della spesa guardavano soprattutto alla crescita e allo sviluppo dei settori vitalidel proprio territorio.

Così è stato per il Belgio che ha accelerato sugli investimenti infrastrutturali, così per la Germania che ha investito su ricerca e nelle reti di trasporto, o come in Spagna dove si è investito di più sulle opere locali.

Quì, in Italia e per il Mezzogiorno il nulla. Sarebbe opportuno decidere di investire di più e meglio sul rilancio di una politica industriale, sul settore energetico, dei servizi e dell’innovazione tecnologica e sulla realizzazione di poche e significative infrastrutture, penso soprattutto a quelle che possono favorire la mobilità di uomini e merci tra le regioni meridionali e verso paesi del mediterraneo, anzichè orientare la spesa verso opere la cui validità è assolutamente opinabile, come il ponte sullo stretto.

262.000 posti di lavoro persi nell’ultimo anno secondo gli ultimi dati ISTAT. Devastante il dato della disoccupazione giovanile che è salito al 29,2% e che è il dato più pesante dal 2004 ad oggi, e entro questi numeri assolutamente preoccupante quelli riferiti alla disoccupazione femminile.

Qui c’è un altro motivo di riflessione: una giovane generazione che rappresenta la punta più avanzata della modernizzazione del Sud, depositaria di quel capitale umano che serve per competere nel mondo oggi e allo stesso tempo la principale vittima di una società più immobile che altrove, e dunque più ingiusta, fino a espellere le sue energie migliori.  Tante le aree di crisi che meriterebbero un’altra attenzione del governo nazionale e soprattutto quello regionale nel settore industriale e soprattutto metalmeccanico:

Oltre alla FIAT, FMA di AVELLINO, l’Alcatel di Battipaglia, la Selfin di caserta, la Fincantieri di C/mmare, o l’assenza di un tavolo istituzionale necessario per il contratto d’Area Torrese-stabiese.  Qui io vedo il senso forte di una battaglia politica del Partito Democratico in grado di rappresentare non soltanto un credibile e solido riferimento per enormi aree di sofferenza e di precarietà, ma un’alternativa concreta ad un modello di sviluppo del Paese diseguale e assolutamente non solidale.

Così si rafforza il profilo identitario di una forza politica popolare e riformista capace di dare voce e sostanza alle difficoltà del Paese reale, delle sue lavoratrici, dei suoi lavoratori, dei precari, dei disoccupati. Nessuna idea di futuro del Paese e del Mezzogiorno da parte dell’esecutivo nazionale e l’assoluta inadeguatezza della giunta Caldoro, subalterna sul piano dell’iniziativa e sulle scelte da compiere per fare fronte alla crisi.

Accanto alla scellerata manovra finanziaria nazionale si aggiunge la scelta tutta ragionieristica del governo regionale che confonde lo sviluppo e la crescita con iniziative scomposte, di tagli indiscriminati addirittura ai limiti della correttezza amministrativa e istituzionale oltrechè delle regole costituzionali.

Tocca a noi rimettere al centro dell’agenda politica la vita delle famiglie, del sistema delle piccole e medie imprese, della grande industria, sapendo che su tutto questo incideranno e negativamente le ultime decisioni assunte dal MISE e relative all’innalzamento delle tasse per il 2010, dell’IRAP e dell’IRPEF, tasse che il PDL e il centro destra, si erano impegnati a cancellare durante l’ultima tornata elettorale.

Non una notizia del più volte annunciato piano per il Sud, per la Credit Card, per la Banca del SUD.

Nulla che riguardi le condizioni di vita della nostra gente
Qui dobbiamo occupare uno spazio e definire il nostro campo d’azione e la nostra funzione di opposizione.

Incalzare il governo regionale perché dica una parola chiara sul perché si bloccano importanti provvedimenti di governo finanziati già dalla precedente giunta e che riguardano alcuni importanti accordi di programma (quello Elasis, quello relativo al consorzio CITEMA, quello per il rilancio produttivo di Caserta); sul perché 2400 borse lavoro finalizzate alla prima occupazione e destinate ad altrettanti giovani della nostra regione non possono partire; perché si blocca il credito di imposta per l’occupazione, mentre quello per gli investimenti continua a subire rinvii nonostante sia tutto pronto sul piano delle procedure amministrative e sulla sostenibilità di bilancio.

E’ dentro questo scenario che ho rappresentato assolutamente per grandi linee si inserisce la vicenda del destino industriale e produttivo della FIAT di Pomigliano.

Non possiamo separare questa vicenda dall’inevitabile rilievo nazionale senza tenere conto in quale contesto ci muoviamo, di fronte all’inadeguatezza di riferimenti istituzionali e soprattutto su quale fragilità del sistema economico tutto questo accade.

Non mi dilungo su questo per dare spazio anche agli altri interlocutori di poter intervenire ma è evidente che per una forza politica come la nostra che rappresenta gli interessi del Paese, non sono indifferenti né la portata dell’investimento e la messa in sicurezza del futuro di migliaia di famiglie né tantomeno la tutela di sacrosanti diritti dei lavoratori, delle loro condizioni di vita dentro la fabbrica.

Lo dico da figlio di operaio che indirettamente ha vissuto sulla propria pelle la fatica del lavoro accanto ad una catena di montaggio, di turni che comprimevano lo spazio dedicato alla propria persona e alla propria famiglia, ma lo dico altrettanto consapevole che, la FIAT a Polmigliano, presidio e frontiera di civiltà e di democrazia vada salvaguardata e rilanciata per il bene della Campania e del Mezzogiorno.

Oggi, forse, a distanza di qualche giorno dall’esito del referendum possiamo trovare le condizioni per far ripartire un confronto ampio e serio, al riparo da condizionamenti mediatici che sembravano separare me da mio padre. Noi dalla difesa dei diritti e delle libertà sindacali.

Guai ad alimentare questa separazione dentro le organizzazioni sindacali, dentro il movimento operaio e soprattutto dentro la percezione di questo Paese, per tanti aspetti così già troppo pericolosamente diviso.

Autorevoli esponenti dell’impresa, del sindacato, dell’università, della cultura, della politica hanno liberamente e legittimamente sostenuto le ragioni del si e del no all’accordo. Oggi siamo dentro un’altra fase.

Oggi è il tempo per il PD e per le organizzazioni sindacali tutte di far avanzare quel si e quel no senza i quali probabilmente verrebbe meno una certezza in più per il futuro di questa terra e per la sua tenuta civile e sociale.

E’ una battaglia comune ciascuno per il proprio autonomo piano di iniziativa ma entrambi, politica e sindacato, con la preoccupazione di sostenere il presente e soprattutto di reggere la sfida del futuro, senza che tutto questo rappresenti la cancellazione di diritti e tutele, ma con la responsabilità di guardare alla fabbrica, all’organizzazione del lavoro con lo sguardo del terzo millennio.

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